Einaudi: Supercoralli
Lo sbilico
Alcide Pierantozzi
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 240
«Il problema era che io aspettavo i corvi, e invece arrivavano i pensieri». Cosa accade quando la realtà si smaglia, e lascia entrare l'allucinazione? Quando la paura ti avvinghia e si accorcia il respiro? Quando l'unico modo che hai per stare al mondo è vivere su un precipizio, nello «sbilico» delle cose? Alcide Pierantozzi si è immerso in quel precipizio, e ne è uscito stringendo tra le mani un libro unico, letterario e ossessivo, capace di raccontarci per la prima volta in modo crudo e vero, “da dentro”, un male che è di molti. Una storia di una potenza disarmante, che urtica e lenisce insieme, e che una volta iniziata pretende di essere letta fino all'ultima parola. O bevuta fino all'ultima goccia, come una medicina. Alcide ha quarant'anni, a volte dorme ancora con sua madre, prende sette pasticche al giorno (cinque la mattina e due dopo cena), ed è considerato «un paziente lucido, vigile, collaborativo, dall'eloquio fluido». È un essere umano «difettoso» tra i tanti, ma i suoi difetti stanno tutti dentro quattro pagine di diagnosi controfirmate da uno dei più famosi psichiatri italiani: «disturbo bipolare», «spettro dell'autismo», «dissociazione dell'io», «antipsicotici», «pensieri di mancata autoconservazione»... Dal suo esilio in una cittadina dell'Abruzzo, dove ogni cosa sembra da sempre uguale a sé stessa, Alcide ci racconta il tempo melmoso delle sue giornate. Le ore in spiaggia, o a sfinirsi in palestra, dove va per riguadagnare in muscoli quello che ha perso in lucidità mentale. Soprattutto ci racconta – con tutta la chimica che ha in testa – cosa accade quando l'equilibrio psichico s'incrina: l'innesco della paranoia, la percezione che si sdoppia, il modo in cui il tempo fermo di un'attesa non è mai davvero fermo, perché è lì che arrivano i pensieri. Nel suo resoconto si alternano momenti di un “prima” a Milano, la città che da sola sembrava poterlo tenere in vita, e di un “prima ancora”, un'infanzia in cui tutto faceva già troppo male ma a salvarlo c'erano la nonna, la bicicletta, tutto uno zoo di animaletti di campagna. Nel presente, invece, c'è la vita con sua madre, che è insieme origine, scandaglio e unico argine possibile delle sue psicosi. E poi c'è l'ossessione per le parole: la ricerca quotidiana in biblioteca, nei dizionari, nei libri, dei termini esatti, che sappiano ridurre l'irriducibile, nominare l'innominabile. Questa è la storia di uno sperdimento, una storia che possiede il dono e la condanna di saper parlare davvero a chiunque. A chiunque, almeno una volta, non si sia riconosciuto nel proprio riflesso allo specchio; a chiunque abbia sentito la realtà passargli accanto come un vento laterale; a chiunque abbia messo in dubbio la fondatezza dei propri pensieri e dei propri desideri. Sono pagine brucianti, che Alcide Pierantozzi ha scritto come se il suo corpo fosse un sismografo, registrando il disagio psichico nella sua forma più pura, descrivendo la violenza – poetica e brutale – di una mente smarrita che cerca di trovare una stabilità impossibile, ma che sempre, sempre, prova a salvarsi. “Lo sbilico” dà voce a un bisogno collettivo fortissimo: quello di nominare con precisione il malessere psicologico, l'alienazione, la medicalizzazione e la solitudine. Un'impresa che può fare soltanto la grande letteratura. «Noi matti non abbiamo solo il diritto di essere soccorsi dai sani, ma anche il dovere di inceppare ogni giorno il mondo per metterlo in discussione ai loro occhi».
Donald. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man
Stefano Massini
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 224
Sembra che l’esistenza di ogni essere umano si giochi su un totale di dieci minuti, la somma di quei fatidici istanti in cui nelle nostre vite succede qualcosa di decisivo. Questo libro è la storia dei dieci minuti di un uomo che da quando ha avuto coscienza di sé ha sempre desiderato una cosa soltanto: il dominio. Una biografia dunque? Semmai una ballata, vorticosa e trascinante, picaresca, onirica, graffiante eppure terribile. Narrata dalla voce inconfondibile di Stefano Massini, che con “Lehman Trilogy” ha portato per la prima volta un italiano al trionfo negli Stati Uniti, ecco l’odissea inesorabile di un bambino che diventa ragazzo d’oro e poi imprenditore senza scrupoli, fino all’attimo esatto in cui decide di indossare la maschera che tutti, oggi, conosciamo come Donald J. Trump. Si può narrare l’uomo più potente della terra come lo farebbe un cantastorie dei secoli passati, intrecciando la storia e la leggenda, la cronaca e il mito, l’orrore e la parodia? Nel raccontare la vita del suo ingombrantissimo, esagerato, predestinato protagonista, Stefano Massini parte dal principio: una famiglia di origini tedesche, un vialetto curato che attraversa un prato tagliato perfettamente, una casa immersa nella quiete idilliaca del Queens. Per stemperare la leggenda nell’umorismo e sabotare la mitologia con il sarcasmo, la parola incantatrice di Massini scende nei dettagli infinitesimali e li annoda alla traiettoria di un’esistenza affollata di personaggi: i genitori, il preside, l’autista, la Golden Wife. E poi l’avvocato, colui che di Donald annusa il potenziale e per primo ne percepisce il fluido, che gli insegna il disincanto e l’utilitarismo. Che lo spinge verso il successo, fino alla conquista di New York, fino alla torre più alta di tutte che porta il suo nome. Nel mondo, intanto, la storia continua a scorrere: i discorsi incendiari di Malcolm X, Lee Oswald che esce di casa armato di fucile, Elvis Presley e Frank Sinatra, Muhammad Ali che vola come una farfalla... Ma mentre accade tutto questo, i nostri occhi sono rivolti esclusivamente alle avventure di quel ragazzo con la pelle arrossata e i capelli biondi che velocemente diventa uomo, si fa chiamare «Golden Boy», seduce le ragazze e non rispetta l’autorità degli altri. Accarezziamo l’erba dei campi da baseball dove gioca, lo vediamo indossare il primo vestito elegante e salire su una Cadillac, lo scortiamo lungo la sua scalata trionfale del mercato immobiliare… Finché vediamo prendere forma l’ultima grandiosa idea: la politica come “exit strategy”. Al disastro finanziario, all’inattualità, alla vecchiaia, forse alla morte. Stefano Massini ha scritto la “chanson de geste” di un personaggio opaco, inafferrabile, che fa della menzogna un’arte e del successo un’ossessione. Ecco a voi la storia dei dieci minuti cruciali e delle fatalità che hanno reso Donald J. Trump l’antieroe del secolo scorso e il grande terrore del millennio appena iniziato.
Cose umane
Antonio Pascale
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 224
«Uno vive tutta la vita in un modo, e alla fine scopre che era in un altro modo». Quali saranno, al termine del nostro viaggio, le cose degne di essere ricordate? In un agosto che svuota le città e le popola di fantasmi, un figlio tenta di sbrogliare i fili della memoria famigliare, e si trova a riannodare anche quelli della propria vita. Con la sua irresistibile, scanzonata vena malinconica, Antonio Pascale percorre la distanza che ci separa da com’eravamo una volta per misurare chi siamo oggi, raccontando di genitori che invecchiano, di giovinezze sognanti, di amori che iniziano prestissimo, finiscono male o non finiscono mai... Insomma, di cose umane. Strade assolate, deserte, che sembrano svanire all'orizzonte, le saracinesche chiuse, un silenzio granitico - e dire che al mondo siamo otto miliardi, ma a Caserta, ad agosto, sembra non ci sia nessuno. A casa dei genitori di Antonio il sole non entra quasi mai: colpa di sua madre che vorrebbe sempre stare al buio, e nel buio dormire, e dormendo, possibilmente, andarsene all'altro mondo. Antonio va e viene da Roma per starle accanto, ma si sa: viaggiare - anche se lo fai su un Frecciargento, avanti e indietro lungo la stessa tratta - è un ottimo modo per mettere in moto l'ispirazione. Quale occasione migliore, allora, per lavorare su una nuova opera? Non un libro, ma un'installazione - come quelle che faceva con Caterina, l'amore tormentato della giovinezza - per raccontare la rivoluzione che in qualche decennio ha trasformato l'Italia: dal paese di Pinocchio, segnato dalla fame e dalla miseria, a MasterChef, il regno dell'abbondanza. Manco a farlo apposta, nella sua storia c'è tutto quello che serve: un nonno contadino che puzza di letame e uno capomastro che odora di acquaragia, i parenti minatori in Belgio, una prozia mezza strega che sembra uscita da un libro di Ernesto De Martino, un padre che si è emancipato dal lavoro dei campi ed è finito all'Ispettorato agrario, una madre maestra che ha insegnato a scrivere a mezzo quartiere e che oggi della sua vita non ricorda quasi nulla, e allora modifica, arrangia, inventa, peggio di un romanziere. E poi ci sono gli amici emigrati al Nord, quelli che sono rimasti in città e quelli che sono rimasti sotto all'eroina, gli speculatori, gli strunz' e gli sfaccimm', le ragazze camorriste e quelle amate, offese, contese. E infine c'è Susanna, la figlia poco più che ventenne, che studia l'intelligenza artificiale e (alla faccia della storia famigliare) vuole vivere in campagna. La sua voce ironica - o forse quella di un bot che le somiglia - fa da contrappunto alle idiosincrasie del padre, obbligandolo ad affacciarsi sul futuro che ci aspetta quando anche l'era di MasterChef sarà tramontata. Implacabile e piena di sentimento, la scrittura di Pascale ci consegna una galleria di personaggi teneri, meschini, violenti, vulnerabili, impossibili da dimenticare perché veri.
Rosarita
Anita Desai
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 104
Una studentessa indiana siede su una panchina del Jardín di San Miguel de Allende, in Messico, quando una sconosciuta le si avvicina con entusiasmo, certa di riconoscere in lei la figlia della sua vecchia amica Rosarita, la pittrice, incontrata lì tanti anni prima. C’è un errore, protesta la giovane, sua madre non si chiamava Rosarita, non è mai stata in Messico e non ha mai dipinto. La sconosciuta è forse un’imbrogliona? Per scoprirlo dovrà lanciarsi in un viaggio trasognato fra passato e presente, realtà e mistificazione, fin nel cuore dei segreti che possono separare, o unire, una madre e sua figlia. Bonita è una giovane studentessa di Delhi in viaggio in Messico per imparare lo spagnolo. Seduta su una panchina del Jardín di San Miguel de Allende, all’ombra della maestosa cattedrale, si gode l’estraneità di un luogo mai visitato. Non conosce nessuno li, e nessuno la conosce. Eppure un’anziana donna in abiti tradizionali, loquace ed eccentrica, l’avvicina con accalorata familiarità, affermando di rivedere in lei la figlia della sua cara amica, Rosarita, conosciuta proprio lì tanti anni prima, quando Rosarita era arrivata dall’India, come ora sua figlia, per seguire la sua vocazione di pittrice sotto la guida dei maestri locali. Bonita prova a dirle che si sbaglia: sua madre si chiamava Sarita, non Rosarita, non era mai stata in Messico e soprattutto non aveva mai dipinto in vita sua. Ma la Sconosciuta non intende ragioni e le sue melodrammatiche perorazioni aprono una breccia nelle certezze della giovane. Bonita è ora costretta a scandagliare i suoi ricordi famigliari in cerca di indizi: lo schizzo di una donna e di una bambina in un luogo non dissimile da San Miguel, scatoloni carichi di fogli poi andati perduti, una lunga assenza materna. E, benché ormai sospetti che la Sconosciuta non sia che un’Imbrogliona, accetta di lasciarsi trascinare in un viaggio dalle nuove traiettorie, attraverso la capitale e fin sulle coste del Pacifico, sulle tracce di quei maestri della pittura murale che avevano saputo ritrarre la violenza della Rivoluzione messicana proprio come i pittori indiani avevano fatto con gli orrori della Partizione. Storia e fantasia, realtà e mistificazione, memoria e invenzione, un viaggio spazio-temporale che a ogni tappa ridisegna i suoi riferimenti e le sue verità, giù giù fino al legame forse inconoscibile, ma certo immobile, di una madre con sua figlia. A più di un decennio dall’uscita di “L’artista della sparizione”, Anita Desai torna in libreria con questo romanzo breve dalla prosa delicata ed essenziale, capace di sfruttare il potenziale dell’allusivo e dell’enigmatico e caratterizzato dalla medesima eleganza a cui la grande autrice ha abituato i suoi lettori.
Sono stato
Ernesto Franco
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 120
«Ho sedici anni, sono immortale, ho un amore, e non c’è mare che possa resistere alle mie bracciate, alle mie astuzie». Esistono molti modi per guardarsi indietro e raccontare cosa si è stati. Ernesto Franco ne ha messo a punto uno tutto suo, per lampi, travestimenti, epifanie. Il narratore di queste pagine ha mille forme e mille voci, a volte sparisce e a volte occupa l’intera scena: ora è un bambino travestito da Corsaro Nero, ora il padre che gioca a Batman con il figlio; ora è marito, ora amante, ora ragazzo e militante negli anni Settanta. E poi ladro, dottore, cecchino, editore, rivoluzionario russo, killer serale di topi… Attraverso questa girandola di personaggi, Ernesto Franco ci racconta tutte le persone che siamo se ci osserviamo da vicino, fondendo vita immaginata e vita vissuta in un bricolage mitico, letterario ed emozionante. Questo singolare autoritratto di fantasia è una scommessa narrativa che sfida l’esperienza individuale per farsi letteratura, trascendendo ciò che esiste di più intimo e personale, cioè il racconto della propria vita, per rivolgersi proprio a tutti. Alla base di “Sono stato” c’è l’intuizione di interrogare e ripercorrere, senza remore né pudore, i molti volti e le molte fisionomie della persona con cui l’autore ha intrattenuto negli anni la frequentazione più duratura: se stesso. E così i frammenti di un’esistenza riaffiorano e sfilano davanti ai nostri occhi in un elenco toccante di ricordi, di evanescenze sognate e di istanti vagheggiati. Su questo palcoscenico dell’immaginazione la memoria gioca a nascondino con la letteratura, tra seminari lacaniani e pomeriggi d’amore, pranzi di Natale a base di hashish e scuole di recitazione, componendo un ritratto mobile e intenso di uno scrittore, di un editore, di un uomo, a cui il destino ha consegnato la qualità rara di saper tenere insieme grazia e passione. Ernesto Franco ha convocato le moltitudini – anche quelle letterarie – che lo hanno accompagnato nel corso della sua vita, tra passeggiate a Buenos Aires, sedute di pesca subacquea, meravigliose telefonate nei panni di Batman fatte al figlio Giorgio. E mentre il mare di Genova scintilla nel blu e si confonde col cielo, ha scritto un libro in cui risuona un’eco profondamente magica. «La vita intanto passa. Questo lo sappiamo tutti. E i giuramenti, a guardarli da lontano, non sono altro che un atto di superbia di piccoli uomini di fronte all’universo immenso. Vien da ridere, ma, a pensarci bene, sono la profezia di un peccato».
La bicicletta rubata
Ming-Yi Wu
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 368
Il padre dello scrittore Ch’eng è scomparso da molti anni senza lasciare traccia. O almeno così sembrerebbe finché un lettore di uno dei libri di Ch’eng non si accorge di un particolare: e la bicicletta del padre, che fine ha fatto? Le sorti della famiglia sono spesso state dettate dalle biciclette, soprattutto quelle rubate, e così Ch’eng si mette a cercare la Hsing-fu del padre. Ne nasce una misteriosa e caleidoscopica caccia al tesoro, nella quale ogni nuovo personaggio possiede un indizio, in un viaggio a ritroso nei meandri del passato. Dai negozi di rigattieri allo zoo di Taipei passando per le giungle birmane, questo singolare romanzo sul tema della memoria, della perdita e dei legami familiari racconta con voce poetica e dolente un secolo di storia taiwanese. Tra le tante parole con cui si indicano le biciclette a Taiwan, la famiglia del narratore preferiva l'espressione locale thih-bé, «cavallo di ferro», e i cavalli di ferro avevano influenzato il suo destino. Il furto di una bicicletta, infatti, aveva spesso scandito nascite e morti. Così, alla scomparsa del padre, al narratore era venuto naturale pensare che, se avessero trovato la bicicletta con cui era sparito, avrebbero trovato anche lui. Ma il suo cavallo di ferro era irrintracciabile. Solo molti anni dopo, pungolato da uno dei suoi lettori, il narratore decide di riprendere quella struggente ricerca, e per prima cosa si rivolge ai collezionisti di biciclette e rigattieri. I loro negozi, stipati di tesori e vecchie cianfrusaglie, scrigni della vita materiale di un tempo, diventano la soglia di un percorso che, attraverso una serie di incontri e seguendo tracce sempre più impalpabili - fotografie, collage composti con le ali di farfalle, audiocassette e ricordi -, si addentra nella storia di Taiwan, fino al nocciolo doloroso del dominio giapponese e della Seconda guerra mondiale. Per cercare di chiarire il mistero della sparizione del padre, il narratore dovrà stabilire con ogni persona incontrata nel corso della sua ricerca un patto di fiducia, ascoltarne la storia, ricevere un indizio, lo stesso patto che Wu Ming-yi propone al lettore. Accettandolo ci si immerge in una lettura profondamente commovente e ipnotica, un viaggio intimo e meditativo nella complessità e nella ricchezza di Taiwan.
Racconti della Resistenza europea
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 528
La Resistenza al nazifascismo non è soltanto una storia italiana. L’angoscia della scelta, gli slanci generosi, l’eccitazione degli scontri armati, il fantasma del tradimento e il rischio della morte percorrono le pagine di tutti gli scrittori che vissero quegli anni di lotta contro le tenebre, dai Pirenei ai Balcani, fino a Samarcanda. Più ancora della storiografia, forse, è proprio la letteratura che ci permette di ricomporre la grande avventura partigiana in Europa in un quadro unitario, per quanto sfaccettato e molteplice. Da Camus a Brecht, da Saint-Exupéry a Fallada, da Pahor a Duras, oltre trenta voci illuminano le passioni di una stagione al tempo stesso cupissima ed entusiasmante, facendo rivivere le palpitazioni e gli ideali, le sofferenze e le speranze di allora. Per ribadire che veniamo tutti orgogliosamente dalla stessa Storia. Nel 2005, per il sessantesimo anniversario della Liberazione, in questa stessa collana Gabriele Pedullà aveva curato i “Racconti della Resistenza”, che da allora si sono imposti come una lettura imprescindibile sull’argomento. A distanza di vent’anni esatti Pedullà prosegue quella ricerca allargando lo sguardo all’intero continente europeo. Perché la Resistenza non è stata una soltanto, o forse sì: nel quadro eterogeneo degli Stati assoggettati al nazifascismo, nonostante le mille differenze, la ribellione contro l’oppressore è riuscita a unire tutti i popoli d’Europa nel nome degli stessi ideali di pace e di libertà. Se durante la guerra non mancarono le pubblicazioni clandestine pensate per rinsaldare le coscienze dei cittadini e spingerli al sabotaggio degli occupanti, è soprattutto dopo la Liberazione che su quegli anni sono fioriti in ogni lingua romanzi, racconti, memoriali, apologhi e addirittura favole, segnando nel profondo la letteratura del secondo Novecento a mano a mano che gli scrittori più diversi ne davano la propria interpretazione narrativa. Malgrado la distanza geografica e l’estrema varietà dei registri adoperati (realistico, tragico, comico, allegorico, fantastico…), quest’antologia unica nel suo genere tenta oggi per la prima volta di tenere assieme quelle voci e quelle esperienze, e soprattutto di farle dialogare tra loro. Da Gary a Malraux, da Borowski a Grossman, da Steinbeck a Dürrenmatt, da Blanchot a Seghers, nella selezione di Gabriele Pedullà i grandi nomi della letteratura del Novecento affiancano autori meno noti e testi finora inediti in italiano. Tassello dopo tassello, prende forma così un mosaico di storie in grado di restituire ai lettori di oggi, in tutte le sue sfumature, la dolorosa ma esaltante battaglia per la libertà in cui affondano le radici delle nostre democrazie.
Col buio me la vedo io
Anna Mallamo
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 216
Lucia ha sedici anni e un cognome – Carbone – che spegne il suo nome, «come il nero e la luce, come la rabbia e l’amore». Del resto, ogni cosa sembra presentarsi doppia ai suoi occhi: maschile e femminile, ad esempio, o corpo e mente. E, soprattutto, il mondo di sopra, quello che abita ogni giorno con la sua famiglia, e il mondo di sotto: la buia cantina in cui ha rinchiuso Rosario dopo averlo rapito. In questo libro magnetico tutto è imprevedibile, perché tutto, proprio tutto, matura nell’immaginario di un’autrice che ha molto da dire e un modo originalissimo per farlo. Reggio Calabria, primi anni Ottanta. La sedicenne Lucia Carbone, studentessa del liceo classico, sequestra un compagno di scuola e lo imprigiona nello scantinato della casa della nonna morta da pochi mesi. Il ragazzo, Rosario Cristallo, è figlio d’un boss dell’Aspromonte, e Lucia lo ha rapito per due buone (o cattive) ragioni: la prima è che la sua migliore amica ne è innamorata, e vuole tenerlo lontano da lei, la seconda è che forse Rosario sa qualcosa sull’assassinio di una zia amatissima. Mentre fa visita ogni giorno al suo prigioniero, la vita di Lucia prosegue apparentemente come al solito: in famiglia – col padre, la madre e il fratellino Gedo –, nel quartiere e a scuola, dove Lucia si innamora di Carmine, un ragazzo dei quartieri alti. Reggio, intanto, città ferita che esce dalla prima guerra di ’ndrangheta, è teatro degli scontri tra il Fronte della Gioventù e il Collettivo studentesco: c’è una sorta di violenza diffusa, che prende strade diverse. E la violenza è anche nei gesti quotidiani di Lucia, e nelle cose, ad esempio in quel coltello rosso che si ritrova tra le mani quando scende nel mondo di sotto, dove c’è il suo segreto. Fino a quando ogni cosa si capovolge, il sopra e il sotto si confondono come tutti gli opposti, e lei matura una decisione inaspettata. “Col buio me la vedo io” è un romanzo che costruisce un universo a poco a poco, con forza, coerenza e una fantasia sbalorditiva, ricco di pagine da incorniciare, come quelle in cui una madre e una figlia piegano le lenzuola calibrando i gesti in una sorta di duello western. Ed è anche un libro sulla giustizia e sul Sud lontanissimo da tutti i clichés: quando usa il dialetto (sempre con parsimonia) non è mai per un effetto di colore ma per cercare a tentoni l’unico senso possibile. Perché il dialetto si può usare «per schermare o per chiarire, è la lingua dei grandi, funziona in tutti e due i modi». E il cibo è soprattutto uno strumento di potere e di controllo: «Se ti sfamo sei salvo, e sei mio». Il modo che ha Anna Mallamo, concreto e immaginifico insieme, di ruotare intorno ad alcuni temi – famiglia, verità, donna, confine, casa –, riaggiornando via via le definizioni nel corso della storia, vi resterà a lungo addosso.
Vite nell'oro e nel blu
Andrea Pomella
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 384
Ci sono vite talmente grandi che sembrano inventate, come certe epoche del mondo. Come la luce che alla fine degli anni Cinquanta si spandeva su piazza del Popolo a Roma nell’ora del tramonto. Sfiorati da quella luce, un gruppo di giovani seduti ai tavoli del bar Rosati – capelli alla moda, sigarette agli angoli della bocca, Clarks ai piedi – guardano in cagnesco la città che rifiorisce dalle macerie della guerra. I loro nomi sono Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa e Francesco Lo Savio. Vengono dal popolo e stanno per prendersi la scena culturale e mondana del Paese. Da lì a poco infatti diventeranno i pittori comunisti che folleggiano con le principesse, bocconi succulenti per i paparazzi e inventori di nuove mitologie pagane. Ma intanto vivono la loro gioventù, lanciando la sfida ai geni artistici d’oltreoceano – Warhol, Rauschenberg, Johns – e frequentando Ungaretti, Moravia, Guttuso, gli Agnelli e i Rolling Stones. Mario Schifano è un profugo della Libia italiana che porta inciso sulla pelle il marchio del miraggio imperialista di Mussolini. Franco Angeli nasce a Roma, nel quartiere di San Lorenzo, in una famiglia perseguitata dal fascismo. Tano Festa e Francesco Lo Savio, nonostante i cognomi diversi, sono fratelli. Il primo passa i pomeriggi sulla scalinata di Trinità dei Monti a distribuire poesie ai passanti. Il secondo, fragile e inquieto, sviluppa un pensiero radicale che lo porta ben presto a isolarsi da tutto e da tutti. Sono «i maestri del dolore», come li chiama un gallerista romano storpiando il titolo di una famosa collana di monografie d’artista. Ciascuno vive la sua «ora d’oro» attraversando la “café society” degli anni Sessanta in una Roma che è tornata a essere il centro del mondo. Conquistano le donne più ambite, vanno a vivere in lussuosi palazzi aristocratici, viaggiano in ogni continente, guadagnano e scialano in modo compulsivo, si tradiscono fino a tentare di ammazzarsi l’un l’altro, mettono su famiglie e le distruggono, soprattutto dipingono come ossessi, senza tregua, firmando opere che segnano l’immaginario iconografico italiano della seconda metà del Novecento. Ma «l’ora d’oro» – quel particolare tipo di luce che c’è solo a Roma, al tramonto, e che fa sembrare i palazzi di velluto – dura pochissimo, poi arriva «l’ora blu», quella dell’ombra che anticipa la notte. Il clima del Paese cambia e i loro nomi sprofondano nell’oblio. Affrontano gli anni della caduta, dello scivolamento verso la follia, gli arresti, la tossicodipendenza, i ricatti della malavita, i ricoveri in ospedali e manicomi. Dando forma a un’epopea che si dipana lungo mezzo secolo di storia d’Italia, Andrea Pomella scrive il romanzo avventuroso di quattro esistenze indimenticabili, capaci di toccare con mano – e restituirci – l’indifesa bellezza della vita.
Un venerdì di aprile
Donald Antrim
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 128
Il venerdì di aprile del 2006 in cui sale sul tetto del suo palazzo di Brooklyn, Donald Antrim ha la percezione che il mondo stia urlando. Infreddolito e senza scarpe, non sta facendo «una scelta né una minaccia né un errore». Che cosa, allora? Partendo da quel lontano pomeriggio, Antrim racconta e analizza i suoi ricoveri in ospedale, le «guarigioni, ricadute e guarigioni», i ricordi famigliari, le sensazioni di dolore, i progressi e le terapie, ma anche gli errori che da sempre facciamo nel leggere una storia come la sua. Un venerdì di aprile, la sera scende sui palazzi di Brooklyn. La gente rientra dal lavoro, il cielo vira dall'arancione al blu. Un uomo aggrappato alla scala antincendio del suo condominio si lascia penzolare nel vuoto. Questo, per Donald Antrim, non è un inizio - «sul tetto avevo la sensazione che stessi morendo da sempre» - e non è una fine, ma un punto di svolta, quello da cui sceglie di partire per raccontare la storia di una lunga malattia: «preferisco chiamarla suicidio». Antrim non elude, non edulcora, non drammatizza. Ripercorre i ricoveri in ospedale dopo il pomeriggio sul tetto, le terapie - compresa quella elettroconvulsivante, a cui si sottopone su suggerimento del collega David Foster Wallace -, le guarigioni e le ricadute, ma va anche all'indietro nel tempo; ripesca attimi dolorosamente nitidi di un'infanzia passata fra traslochi e crisi famigliari, torna a più riprese sui genitori alcolizzati, l'insonnia, la sfilza di farmaci, terapeuti, angosce, approcci, sintomi. Resoconto analitico, cronaca dal di dentro, quello di Antrim è un memoir spiraliforme che restituisce idee molto precise su che cos'è il suicidio - un male sociale - e come lo si dovrebbe trattare. È una storia di dolori e tremori che risale la corrente: «dobbiamo distinguere tra cervello e corpo? Il cuore mi batte forte per l'ansia o sono ansioso perché il cuore mi batte forte?» A guidare ogni riflessione, a innervare il racconto, è sempre l'umanità, il contatto con gli altri: eluso, inseguito, perso, ritrovato, è il fulcro delle pagine che Donald Antrim scrive, a distanza di anni, mentre guarda la scala antincendio fuori dalla sua finestra.
Sfinge
Gabriele Di Fronzo
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 224
È da tutta la vita che Matteo Lesables accompagna in giro per il mondo statue, sarcofagi, papiri. Per il suo ultimo incarico scorta la Sfinge – un «blocco di sabbia tenuto insieme dal tempo» – fino a Shanghai, la città che più di ogni altra abita nel futuro. Lì, tra grattacieli e profezie, l’incontro con una donna gli farà capire davvero quello che ha perso quando ha scelto di restare fedele a se stesso. «In Cina c’è un proverbio per rimproverare chi non conosce il valore di quello che gli passa sotto gli occhi: Comprare un cofanetto e dare indietro le perle. Io è una vita che compro cofanetti per dare indietro le perle». Nel corso della sua lunga carriera, Matteo Lesables ha trasportato per le mostre e i musei di tutto il mondo sarcofagi, gioielli, statue, papiri, persino intere tombe, bighellonando solitario per camere d'albergo e serate di gala. Questo viaggio in cui accompagna in Cina l'antichissima Sfinge, fiore all'occhiello del museo di Torino, è l'ultimo incarico delicato prima di avviarsi verso il congedo. Ma una settimana a quelle latitudini è piú rivelatoria e pericolosa di una vita intera: nel formicaio di Shanghai, Lesables incontra una donna. Qualcosa, nello sguardo, nel corpo e nei movimenti di Qi - «un'aria di malizia negli occhi che mi fa sospettare una certa dose di mistificazione anche nei discorsi piú sinceri» - lo riporta al passato, a rimpianti e tenerezze che credeva di aver insabbiato per sempre. In particolare la presenza di quella donna gliene ricorda un'altra, Sara: l'amore perduto per orgoglio, o per poco coraggio, o perché a volte proprio non si ha la stoffa per essere felici. Insieme a Qi berrà piú di un bicchiere di vino, osserverà un uragano abbattersi sulla città dalla finestra del suo hotel, nuoterà tra le antiche rovine della Grande Muraglia sommersa e - suo malgrado - si troverà al centro di un intrigo eco-terrorista. Quest'ultima trasferta, per Lesables, sarà l'occasione per spingere un po' piú lontano la solitudine a cui si è condannato, e onorare finalmente una promessa non mantenuta. Con una scrittura elegantemente malinconica, e uno sguardo disincantato e lucidissimo sul mondo, Gabriele Di Fronzo ci regala un romanzo che oscilla tra la dimensione intima e quella universale, tra il sentimento e il rigore, l'ironia e la commozione.
Sotto lo sguardo del leone
Maaza Mengiste
Libro: Libro rilegato
editore: Einaudi
anno edizione: 2025
pagine: 368
Addis Abeba, 1974. Hailu è un medico che professa il suo lavoro come una fede. Ha due figli, Yonas, che confida nella forza della preghiera, e Dawit, che fa della ribellione il suo credo. Da quando il cuore debole di Selam, moglie e madre amatissima, non batte più al ritmo regolare, l’equilibrio familiare vacilla. Ma a sconvolgere le loro vite, e l’Etiopia intera, arriva la Storia: il colpo di stato militare segna la fine di un impero millenario. È l’inizio di un tempo scandito dalla violenza in cui tutti sono chiamati a scegliere se tacere o avere il coraggio di lottare. Mentre per le strade dell'Addis Abeba del 1974 si rovescia la rabbia verso le politiche dell'impero, Hailu estrae un proiettile dalla schiena di un ragazzo ferito a un corteo. Muove il bisturi con le mani autorevoli di chi è abituato a curare. La medicina gli impone efficienza, rigore, distacco. Eppure in quella sala operatoria Hailu pensa a suo figlio Dawit, forse coetaneo del paziente a cui cerca di salvare la vita. Forse anche lui tra i dimostranti furiosi che sfidano la milizia di Hailé Selassié impegnata a sedare i disordini. In quei giorni Hailu si preoccupa per Dawit: come tanti etiopi, il giovane è convinto che la ribellione possa cambiare le sorti del paese destinato al declino sotto la guida di un sovrano vecchio e stanco, ma non considera i rischi. Benché incrollabili, gli ideali non potrebbero fargli da scudo contro le armi dell'esercito. Se solo sua moglie Selam non fosse imprigionata in un letto d'ospedale in balía di un cuore debole, magari riuscirebbe a placare Dawit, perché il loro è un legame speciale. Del resto la malattia di Selam ha incrinato l'equilibrio di tutta la famiglia, e nella casa sulle alture intorno alla città ognuno declina il dolore a modo suo. Hailu, sopraffatto dalla paura di un futuro senza l'amata sposa, cerca nella scienza un conforto impossibile; Yonas, il figlio maggiore, si inginocchia nella stanza di preghiera, chiuso nel silenzio di un senso di colpa; Sara, sua moglie, attinge la forza da un passato difficile anche per la loro figlia, la piccola Tizita; Dawit spesso riversa nei veloci movimenti della danza insegnatagli dalla madre l'inquietudine che si agita dentro di lui e nel mondo che lo circonda. A sconvolgere le loro vite, e l'Etiopia intera, arriva la Storia: il 12 settembre 1974 con il colpo di stato del Derg viene deposto Hailé Selassié, ultimo imperatore. È l'inizio di un tempo scandito dalla violenza, in cui tutti sono chiamati a scegliere: ubbidire o tenere fede ai propri principî, consegnarsi a una facile salvezza o abbracciare il coraggio di lottare.

