Pacini Editore: I libri dell'associazione Sigismondo Malatesta. Studi di teatro e spettacolo
Il comico e il tragico a teatro nel secolo del serio
Libro: Libro in brossura
editore: Pacini Editore
anno edizione: 2023
pagine: 210
«Il punto di partenza di questa ricerca malatestiana consisteva nell'indagare in che maniera, nel corso dell'Ottocento, fossero studiate, messe in scena e recitate opere teatrali appartenenti ai due generi più illustri della tradizione: la tragedia e la commedia. L'ipotesi, infatti, era che il XIX secolo rileggesse in chiave seria sia il genere comico, sia quello tragico. Si intendeva così raggiungere un ulteriore obiettivo: comprendere per contrasto in cosa consistesse quella moderna attitudine stilistica che va sotto il nome di "serio", tipica del secolo borghese. In questa breve introduzione, tenendo presenti i contributi del volume, proveremo a esemplificare, a partire dalla ricezione del teatro di Molière a fine Ottocento, alcuni tratti che ci sembrano poter definire la conversione del comico molieriano al serio. Anche Molière non fu infatti esentato da critiche e ripensamenti che testimoniano l'affermarsi di una nuova drammaturgia che, se non poteva prescindere da una tradizione illustre, d'altra parte si proponeva di correggerla. Il primo sintomo di questa modificazione del gusto è dettato dall'insofferenza verso quella che potremmo definire la genericità del teatro classico, colpevole di non precisare lo statuto dei personaggi, le loro esperienze morali e psicologiche, la loro vita precedente all'entrata in scena. Jules Lemaître poteva infatti accusare "La semplificazione della biografia e della condizione sociale dei personaggi e anche la pressoché totale assenza di dettagli precisi sulla loro condizione e sul loro passato". Tali dettagli, cui i drammaturghi ottocenteschi supplivano per le loro pièce con frequenti e abbondanti didascalie, sarebbero necessari alla comprensione del carattere di Alceste o di Célimène nel Misantropo. Per la sensibilità del grande critico teatrale il personaggio classico, ridotto quasi sempre alla mania o alla sola dimensione sentimentale, appare non sufficientemente modellato. Ciò che gli manca è una estensione propriamente romanzesca. Il tempo del teatro classico è percepito come un'astrazione dal tempo reale, che ormai si identifica con quello del romanzo…» (dall'introduzione)
Su Wagner e altri scritti di teatro musicale
Francesco Orlando
Libro: Libro in brossura
editore: Pacini Editore
anno edizione: 2021
pagine: 262
«"Si chiamava Mime/ un nano malmostoso": così esordisce, in tono di ballata, l'improvvisata autobiografia di Sigfrido nel terzo atto del Crepuscolo degli dei (tutte cose che abbiamo già visto in scena nella giornata precedente, Sigfrido). Uno gnomo fastidioso e ripugnante, codardo, saccente, mielosamente querulo, e soprattutto ipocrita: ha allevato un oda-nello di stirpe divina nella speranza che costui, divenuto adulto, ucciderà per lui il drago che custodisce il tesoro; dopodiché, crede lo gnomo, basterà poco per sbarazzarsene - una pozione soporifera, un fendente sul collo. Personaggio schifoso, insomma. Eppure. Sigfrido va in scena da quasi un secolo e mezzo, e non c'è pubblico che non trovi Mime, per certi aspetti, simpatico. Sarà la patina di comicità che si stende sui primi due atti dell'opera, e che fa di lui quasi un personaggio da cartoon, una specie di Willy Coyote sempre intento a tramare furbissime macchinazioni che poi gli si rivoltano contro, per la divertita commiserazione di tutti. Sarà che la sua ninnananna, pur palesemente sospetta nella sua regolarità sintattica, e grondante di menzogne e mezze verità, è una delle più belle canzoncine infantili che sia dato sentire. L'opposizione assiologica, l'Altro spregevole contro l'eroe puro e senza paura (che però, nell'opera dopo, si macchierà di inganni ancor peggiori, seppure non voluti) finisce insomma per vacillare. Perché alla fine, come scrive Francesco Orlando, «l'arte serve male l'ideologia quando non lesina, a chi sta lì per essere reietto, presenza e voce». È un fenomeno frequente nell'opera in musica: facendo cantare tutti, non si nega ad alcun personaggio la possibilità di orientare in proprio favore, magari per poco, l'identificazione, o almeno la comprensione e l'indulgenza dello spettatore...» (Dalla Prefazione di Luca Zoppelli)
«Cavato dal spagnuolo e dal franzese». Fonti e drammaturgia del «Cerceriere di sé medesimo» di Lodovico Adimari e Alessandro Melani (Firenze 1681)
Nicola Usula
Libro: Libro in brossura
editore: Pacini Editore
anno edizione: 2019
pagine: 262
«Se mi si chiedesse di sintetizzare in due parole la trama del Carceriere di sé medesimo di Lodovico Adimari e Alessandro Melani (Teatro del Cocomero, Firenze, 1681), direi che non racconta altro che l’amore contrastato del principe e della principessa di due regni nemici, in cui si innesta l’espediente dello scambio di persona. Questo equivoco, o “dato di fatto falso”, è innescato da un poveretto (di mezzi e di comprendonio) che indossa l’armatura abbandonata dal principe e perciò si ritrova incarcerato, nientemeno che sotto la custodia di quest’ultimo, il quale diventa così carceriere “di sé medesimo”. Se a questo dramma per musica si togliessero il tempo dello sviluppo drammatico, l’abilità poetica e teatrale di Adimari, e gli affondi “affettuosi” della musica di Melani, non rimarrebbe che una storia smilza e neppure troppo avvincente, pane per i denti dei detrattori dell’opera del Seicento, che ancora continuano a pensare al melodramma postmonteverdiano come a una “cacciata dall’Eden”. Eppure, nonostante la trama semplice e un finale più che scontato, questo dramma per musica racconta molte più storie e più mondi di quanto non paia a prima vista. Si tratta infatti di una delle numerosissime revisioni dell’Alcaide de sí mismo di Calderón de la Barca (1651), mediata dalla versione francese che ne diede Thomas Corneille sotto il titolo Le geôlier de soi-mesme (1655): nel 1681 a Firenze andò dunque in scena il risultato artistico dell’incontro di almeno tre diverse culture teatrali. Gli esiti letterari e teatrali delle varie combinazioni di questi mondi hanno attirato l’attenzione di ispanisti, francesisti e italianisti, nonché teatrologi e musicologi, tutti accomunati dallo stesso filone di ricerca, il cui vero significato mi pare risieda nell’immagine leibniziana della “piega”, così come la raccontava Gilles Deleuze. Secondo la lettura del filosofo francese “il Barocco produce pieghe di continuo [...] curva e ricurva le pieghe, le porta all’infinito, piega su piega, piega nella piega”. La complessità del mondo delle manipolazioni dei testi teatrali durante il Seicento sembra rispondere proprio a questa dinamica da origami, in cui ogni entità è in realtà la piega di qualcun’altra e a sua volta ne attiva un numero che può dirsi infinito. E così El alcaide di Calderón deriva dalla “piegatura” di elementi letterari e drammatici che lo precedono, e allo stesso tempo genera un altissimo numero di differenti esiti teatrali, a seconda della nazione e dell’autore che si cimenta nella sua revisione. E ciò fino al Carceriere di sé medesimo promosso nel 1681 al Teatro del Cocomero dagli Accademici Infuocati, il quale a sua volta, come vedremo, fu punto di partenza per ulteriori manipolazioni testuali...» (Nicola Usula)